Uno dei piatti più caratteristici della capitale del Giappone: un po’ di storia, come si mangia, dove si trova.
Definire cosa sia esattamente il Monjayaki (もんじゃ焼き), usando termini gastronomici che si rifanno alla nostra cultura culinaria, è un’impresa piuttosto complessa.
Pur avendo come base della pastella, alla quale si aggiunge una varietà praticamente infinita d’ingredienti, questo piatto non è propriamente né una crepe né un pankake.
Particolarmente amato dagli abitanti di Tokyo, è un parente molto stretto del più celebre okonomiyaki (お好み焼き, un robusto pancake salato tipico della regione del Kansai).

Nato come spuntino per bambini nel 19° secolo (la pastella era a volte anche mescolata con il miele e veniva preparata nei negozi di caramelle), si è trasformato in una sorta di “sfamapopoli” nel dopoguerra.
In questo duro periodo le famiglie più povere usavano infatti la farina di grano tenero, allungata con acqua o dashi (出汁 o だし, il brodo di pesce, oggi invece va per la maggiore la salsa worchester), per creare una pastella lenta che è diventata poi la base caratteristica di questa ricetta.
Questo morbido substrato veniva spesso “rinforzato” con l’aggiunta d’ingredienti vari, principalmente verdure e all’occorrenza yakisoba (焼きそば, spaghetti di grano saraceno alla piastra), formaggio, mentaiko (明太子, uova di merluzzo), seppie, maiale tritato, gamberetti e altro, a seconda della disponibilità del momento.
A differenza dell’okonomiyaki, il monjayaki ha una preparazione diversa. Gli ingredienti aggiuntivi vengono infatti prima saltati sulla teppan (una piastra per la cottura degli alimenti) e sminuzzati con due grandi spatole, per poi essere aggregati al composto semi-liquido. Nell’okonomiyaki invece tutti gli ingredienti vengono prima mescolati e poi cotti sulla piastra.
La consistenza più liquida della base del monjayaki fa sì che il prodotto finale risulti meno appariscente dell’okonomiyaki. Si presenta infatti come una sorta di pizzetta appiattita dagli ingredienti mescolati.
Non ci si deve lasciar ingannare dall’occhio: il gusto di questo piatto può essere davvero eccezionale e la vasta scelta di combinazioni che propongono solitamente i ristoranti specializzati nel monja (nel gergo popolare la pietanza è abbreviata così), permette infinite variazioni sul tema.
Nella capitale giapponese, l’area dov’è possibile trovare la più alta concentrazione di ristoranti che servono il monja è Tsukishima. In questo quartiere-isola, sorto nel 1892 dall’accumulo dello sterramento derivato dalla costruzione di un canale navigabile nella baia di Tokyo, esiste una strada conosciuta come monja street (in giapponese monjayaki no machi, Tokyo, Chuo city, Tsukishima 1-9).
Qui una sfilza di locali servono, con alcune significanti variazioni, la stessa specialità. Nell’ora di pranzo quest’area è frequentatissima dagli edochiani (abitanti di Tokyo) che, in quest’oasi felice circondata da grattacieli, passano per godersi un po’ di tranquillità e gustare uno dei piatti simbolo della loro tradizione culinaria.
Di solito il monjayaki è preparato dagli stessi commensali, ai quali i ristoranti forniscono: spatole (indispensabili per la corretta preparazione della pietanza), la teppan (che si trova al centro dei tavoli) e i moji-bera (もじベラ).
Queste caratteristiche “posate” o mini spatole, utilizzate per mangiare il monja (le bacchette risulterebbero davvero scomode), hanno una storia interessante. Il termine moji-bera deriva dall’unione dei termini moji (lettera/carattere) e bera (spatola). L’origine etimologica del termine risale al periodo post-bellico; al tempo gli studenti che non avevano soldi per comprare carta e penne, si esercitavano infatti nella scrittura ponendo sulla piastra calda una mistura di acqua e farina che, rapprendendosi, formava i vari ideogrammi imparati a scuola.
Tornando al monjayaki, nel “corredo” che accompagna la sua preparazione c’è anche di solito una saliera di nori sminuzzata (elemento praticamente fisso sui tavoli, usato a cottura ultimata, per insaporire ulteriormente la pietanza) e un piatto per gli okoge (i resti abbrustoliti del monja), che vengono sgranocchiati accompagnando birra o sakè.

Il monjayaki ha una sua ritualità. Dopo aver scelto la combinazione d’ingredienti, il cameriere porta ai commensali una scodella dove si possono notare due strati: sopra gli “elementi” solidi e sotto la pastella allungata. Gli ingredienti “duri” vengono quindi separati dalla pastella e posti sulla piastra mentre con le spatole vengono finemente sminuzzati e disposti in cerchio, lasciando al centro una sorta di cratere.
Quando gli ingredienti iniziano a prendere un colore ambrato e le verdure iniziano ad appassirsi, viene versata nel mezzo la pastella. Una volta che il composto liquido inizia a rapprendersi, il tutto viene nuovamente mescolato, sminuzzato e allargato con le spatoline a formare una sorta di fina pizzetta multigusto. Quando alzando con la spatola, si nota che la parte bassa del composto ha raggiunto la giusta brunitura, è il momento di passare ai moji-bera. Pressando queste piccole spatoline sui bordi del monja, parte del monja vi aderirà. Basterà ruotarlo per staccarne un pezzo e trasformarlo in un succulento boccone.
A chi volesse aggiungere alla propria cintura un nuovo trofeo culinario, suggeriamo senz’altro una tappa a Tsukishima, che è d’obbligo non solo per gustare il Monja, ma anche per visitare questa zona caratteristica, una sorta di paese nella città dall’atmosfera rilassata e pacifica.
Quest’area è facilmente raggiungibile con il trasporto urbano, sull’isola è presente infatti la Tsukishima station, servita dalla Toei Oedo Line e dalla Yurakucho line.
Tutte le monjaya della zona offrono menu che variano agli 8 ai 15 euro per il pranzo e dai 15 ai 25 euro per la cena; questa sarà la cifra che più o meno dovrete pagare per dire di aver mangiato da veri edochiani.

Kondo (近どう 本店, Tokyo, Chuo city, Tsukishima 3-12-10) è la più antica monjaya di Tsukishima. Aperto nel 1950 offre forse la più vasta combinazioni d’ingredienti per il Monja di tutto il Giappone. Come in quasi tutti i locali che servono questa pietanza, gli stranieri o gaijin vengono istruiti nel loro primo approccio con il Monja dai gentili camerieri che saranno felici di mostrare la tecnica per cucinare a dovere la pietanza. Ogni tavolo è fornito del tipico teppan (piastra) e un pasto che comprenda una ricca ciotola di Monja accompagnata da una birra varia, a seconda degli ingredienti, tra i 1000 e i 2000 yen a pranzo e i 2000/3000 yen per la cena.

Anche Iroha, meglio conosciuto come Iroha Nishinaka (もんじゃいろは 西仲店, Tokyo, Chuo city, Tsukishima 3-8-10), è un’istituzione per questo piatto tanto da aver messo in piedi anche una catena di monjaya. La “casa madre” si trova naturalmente a Tsukishima ed è stata aperta nel 1955. C’è poco da dire su questo posto e la genuinità del locale è dimostrata dalla fila di clienti che puntualmente, sia a pranzo che a cena, affrontano lunghe code prima di sedersi. Anche qui i prezzi variano tra i 1000 e i 2000 yen per il pranzo e i 2000/3000 yen per la cena (tutti i locali hanno più o meno gli stessi pressi a patto di non esagerare con gli alcoci). Un’esperienza che vale senz’altro la pena, considerando che potrete dire di aver mangiato in uno dei locali più caratteristici di Tokyo.
Questo piatto oltre ad essere una tipicità della capitale è molto popolare anche nella prefettura di Saitama, nella parte orientale della prefettura di Gunma e nella parte meridionale della prefettura di Tochigi. A Tokyo invece oltre che a Tsukishima, diversi ristoranti specializzati in monja si trovano nell’area di Asakusa.