Avete presente gli spaghetti aglio e olio? Una pasta dagli ingredienti semplicissimi che, nonostante questo, forse è una delle più radicate in fondo ai nostri cuori italiani. Ogni volta che me la trovo di fronte rievoca ricordi e sentimenti del passato che non mi abbandoneranno mai. I pranzi da bambino quando la mamma non aveva tempo di cucinare, le spaghettate con gli amici a notte fonda, le prime sfide con i fornelli tra aglio e peperoncino bruciati e pasta troppo salata. Ricordo ancora quando molti anni fa durante una serata con gli amici uno mi disse “andiamo in quel posto perchè fanno l’ajo e ojo più bona de Roma anche a notte fonda”.
Questo piatto “salva cena”, semplice ma complicato, non è certo quello che logicamente si dovrebbe ordinare in un ristorante italiano a Tokyo dopo settimane di astinenza da guanciale. Invece ogni volta che capita l’occasione di sedermi ad un tavolo circondato da vini, foto dell’Italia, parmigiani e prosciutti, spero sempre di trovare nel menù una semplice pasta aglio e olio e peperoncino. Non c’è mai, ovviamente. Potrei chiederla ma prenderei alla sprovvista lo chef, ed i giapponesi presi alla sprovvista non sono mai una sicurezza.
Ma questo cosa ha a che vedere con la cucina giapponese? vi chiederete. Ora ci arriviamo, con un altro esempio. Che non me ne vogliate.
Il panettone. E’ il caposaldo del Natale. E’ talmente forte l’associazione panettone-vacanze di natale che per un negozio basta metterne all’ingresso due confezioni per far pensare ai clienti “eh, già Natale?!”.
Quando arrivano le feste, c’è a chi piace di più, a chi piace di meno. Ma tutti una fetta di panettone se la fanno. E’ come se senza un morso non si avesse mai vissuto quel Natale.
E lo stesso per la Pasqua con la colomba o, ancora meglio, l’uovo. Per tutti è stato un traoma l’anno in cui la zia non ti ha più regalato l’uovo perchè ormai eri grande. Ma non perchè noi avessimo bisogno puramente di cioccolato; semplicemente perchè in quell’occasione, quel cioccolato aveva racchiuso in se qualcosa di più dello zucchero e del cacao. Aveva racchiusi i ricordi ed i sentimenti, la spensieratezza dell’infanzia.
Quando feci il mio primo viaggio a Tokyo ancora mi ricordo come la prima sera, in cerca di qualcosa da mangiare intorno all’hotel, mi sentissi spaesato tra un infinita di ristoranti e di cibi sconosciuti. Come un bambino in un Luna Park. I supermercati erano incomprensibili. Ma ero affascinato. Non ho mai amato il mangiare in quantità, però mi ha sempre incuriosito la cultura che si cela dietro ad ogni piatto. E del Giappone mi sono innamorato specialmente per la sua salda, indissolubile e mai stagnante cultura culinaria.
Il mio primo ramen lo provai da solo; mi aggiravo sperduto in cerca di cibo e vidi per caso un piccolo classico ristorante con solo il bancone, come nei film. Era semivuoto (per i suoi 10 posti a sedere). Entrai e scelsi il primo che mi capitò. La bontà di quel piatto, o forse è meglio dire di quel momento, mi venne incisa nell’anima. Ci riandai svariate volte e anche dopo il secondo e terzo viaggio che feci, dopo aver provato altri ramen e altre decine di piatti giapponesi, quel ristorante rimase per me il più buono mai provato.
Invitai in varie occasioni amici giapponesi e occidentali a provarlo. A qualcuno piacque, a qualcuno un po’ meno, ma in fondo nessuno mi disse mai che fosse così buono come per me invece era. E questo, lo ho capito solo ora, era perchè per me in quel posto assaporavo un sentimento, mentre per gli altri era solo un semplice ristorante di ramen come un altro.

Insomma, l’ingrediente migliore ed inimitabile di ogni piatto è il sentimento che esso provoca in noi. Anche il Maestro Iginio Massari, probabilmente uno dei migliori al mondo in pasticceria, in una chiacchierata con Montemagno rivela che dopo tutti i suoi risultati non è ancora mai riuscito a preparare, a seguito di numerosi tentativi, quella crema buona come gliela preparava sua madre. E questo perchè nei suoi ricordi rimane quel sentimento impossibile da imitare sottoforma di ingredienti o tecniche di preparazione.
La cucina giapponese è tutta basata su concetti che si allontanano dalla mera preparazione. Il rispetto degli ingredienti, la tradizionalità, l’andare a pari passo con le stagioni, l’indissolubile principio di bilanciamento in ogni pasto tra carne, pesce, verdure, zuppa, tè e via dicendo. Un pasto non è solo un pasto, ma un compagno del momento, da gustare dall’inizio alla fine. E’ per questo che i giapponesi quando vanno a divertirsi con gli amici, a sbevazzare o a cantare al karaoke non smettono mai di mangiare.
Ogni evento, ogni festa, ogni occasione ha il suo cibo, e quello stesso cibo ha una ritualità intrisa. E la presenza di quella stessa ritualità sprigiona in quel semplice cibo un valore superiore.

Quando si va allo yakiniku, non ci si va solo perchè si vuole mangiare la carne. Già dal momento in cui si parla con il gruppo per la scelta non è solo un fatto di tipo di cibo, ma di tipo di cena. Si sta intorno ad un tavolo, si prepara la carne sulla griglia per tutti, piano piano, assolutamente spartendo le fette in maniera equa. Si sceglie okonomiyaki? Allora via a mettersi d’accordo per gli ingredienti. Yakitori? Allora si ordina un po di tutto e piano piano ognuno chiede il bis di quello che preferisce. Ci si fa un ramen? Allora ognuno si chiude di fronte alla propria ciotola non lasciando spazio a chiacchiere.
La grande importanza che si da al cibo in questo paese, con il passare dei giorni vissuti qui a Tokyo mi ha affascinato sempre di più, e forse è la cosa che più di tutte mi ha tenuto compagnia e fatto sentire a casa. In fondo l’amore per la propria cucina è un valore importantissimo anche in Italia.
Molti cibi giapponesi di cui all’inizio veramente non comprendevo il motivo della stessa esistenza, ho piano piano iniziato ad apprezzarli fino al punto di non potere più farne a meno.
Non mi scorderò mai un giorno quando, dopo una lezione di lingua (erano le prime settimane), un amico mi disse di andare a provare in un ristorante un hosomaki (il rotolino di sushi) con dentro uno degli ingredienti più schifosi che avesse mai provato in vita sua. Ero scettico, dicevo “ma dai, e che sarà mai”, e lui rispondeva “vedrai vedrai quando lo provi”. Entriamo, ordiniamo sushi normale e poi quell’hosomaki. Ricordo ancora la nausea che mi venne quando lo misi in bocca. Era tremendo.
Oggi, dopo anni, quell’ingrediente, fagioli di soia fermentati filamentosi comunemente chiamati natto, è forse la cosa che più mi piace della cucina giapponese. Anche a colazione.
E’ incredibile ma è così.